ciclo di incontri - marzo 1997
Quaderno n. 68
La figura dell'altro nelle religioni non cristiane
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Induismo

Sergio Manna
 

Per affrontare adeguatamente il tema che mi è stato proposto «La figura dell’altro nell’Induismo», ritengo si debba parlare innanzitutto della alterità dell’Induismo rispetto al Cristianesimo; una alterità mal compresa che ha generato e diffuso fraintendimenti e pregiudizi che perdurano fino ad oggi.

Una delle difficoltà fondamentali sta nel fatto che l’Induismo non possiede nè una Chiesa ufficiale, nè una dottrina universalmente vincolante, per cui il cristiano o la cristiana che vogliano capirci qualcosa rimangono disorientati.

Un mio professore usava ripeterci che è più facile riconoscere uno hindu ortodosso piuttosto che definire che cosa sia l’ortodossia hindu.

Molti fraintendimenti nascono anche dal fatto che siamo abituati a considerare l’Induismo come un’unica religione e come una religione politeistica.

In realtà Induismo è un concetto coniato dagli occidentali, i quali, allorché iniziarono ad occuparsi dell’universo religioso indiano, non si resero conto del fatto che gli indiani non avevano una sola, bensì più religioni.

Gli studi indologici moderni cercano di correggere questo errore.

Perciò, se vogliamo continuare ad usare il termine Induismo, dovremo farlo nella consapevolezza che si tratta di un nome collettivo, un nome con il quale indichiamo non una sola religione, ma un collettivo di religioni.

Visnuismo, Sivaismo e Saktismo non sono tre sette all’interno di una stessa religione, ma tre religioni diverse che non adorano come divinità suprema lo stesso dio, che non si basano sugli stessi libri sacri, che non si richiamano agli stessi fondatori o teologi.

Religioni diverse, dunque, che hanno in comune uno spazio geografico, alcune tradizioni, alcune dottrine, ma soprattutto una finalità: quella di dischiudere all’essere umano un accesso all’assoluto e alla salvezza.

Affrontando quindi la questione della alterità intrareligiosa dovremo dire che essa è uno dei caratteri costitutivi dell’Induismo.

Tale alterità in generale non costituisce affatto un problema. L’unità infatti riguarda il fine da raggiungere, cioè la salvezza, mentre, per quanto riguarda i modi per raggiungere il fine, essi possono essere molteplici. A dire il vero la molteplicità delle vie, per l’Induismo non solo è possibile, ma è addirittura necessaria dal momento che gli individui sono diversi l’uno dall’altro, con attitudini, esigenze, bisogni ed evoluzioni distinte. Perciò nell’Induismo vi è tolleranza ed è difficile che colui che si faccia portatore di una sensibilità diversa sul piano della fede venga considerato «eretico».

Laddove è difficile dire cosa sia la ortodossia, è altrettanto complicato riconoscere l’eresia. È infatti difficile parlare di eresia in un universo religioso che non pone se stesso come assoluto e che non pretende di affermare una dottrina universalmente vincolante.

Il Dio supremo nell’Induismo non vede nei culti rivolti ad altri dei un abominio, nè considera gli altri dei come rivali.

Nella Bhagavadgita (V sec. a.C.), uno dei testi sacri dell’Induismo, il dio Krsna si rivolge all’eroe Arjuna affermando:

«Anche coloro che sono devoti ad altri dei, e, armati di fede, recano loro onore, anche essi proprio me, o figlio di Kunti, onorano, benché non proprio in forma giusta» (Bhagavadgita IX,23).

Naturalmente non viene detto che sia indifferente quale dio si adori, nè che tutte le vie siano di uguale valore. Anche nell’Induismo il seguace di una certa via considererà la propria religione come la migliore; però non affermerà che le altre vie  siano false o che conducano alla perdizione.

Accanto alla propria visione religiosa ci sarà spazio per la visione religiosa dell’altro. Lo sivaita considererà come dio supremo Siva, senza per questo entrare in conflitto con il visnuita, per il quale invece il dio supremo sarà Visnu. Entrambi concorderanno forse sul fatto che in fondo c’è un unico Dio che si manifesta assumendo nomi e forme diverse.

Le tre divinità principali dell’Induismo, Brahma, Visnu e Siva, si ritrovano, non a caso, unite in un’unica rappresentazione detta trimurti, una sorta di trinità nella quale Brahma ha il ruolo del dio che crea l’universo, Visnu quella del dio che lo preserva, Siva quella del dio che lo distrugge per permettere la nuova creazione.

Continuando la riflessione sulla alterità intrareligiosa può essere interessante notare come nell’Induismo l’altro per eccellenza sia proprio Dio, perché è Dio stesso che nel suo manifestarsi si fa sempre di nuovo altro da sè.

Il Cristianesimo conosce la dottrina della incarnazione in base alla quale Dio si è incarnato una volta e per tutte in Gesù Cristo. Nell’Induismo, in particolare nel Visnuismo, esiste la dottrina degli avatara (letterelmente: «discese»), in base alla quale il dio Visnu si incarna in forme diverse in epoche diverse.

Una di queste incarnazioni è Rama, l’altra è Krsna. Ebbene, si tratta di due figure diversissime l’una dall’altra, sebbene entrambe manifestazioni dell’unico Dio.

Questa alterità diviene ancora più evidente quando si consideri il fatto che nell’Induismo convivono insieme concezioni di Dio diversissime le une dalle altre. Il Visnuismo, lo Sivaismo e lo Saktismo credono in un Dio personale che ha nome e forma e può essere dunque rappresentato con immagini. Ma mentre i primi due raffigurano la divinità con tratti maschili, lo Saktismo lo fa con tratti femminili. Tutti e tre concordano comunque nell’affermare che Dio possiede qualità e attributi per cui si può dire che Dio ama, che è buono, bello, misericordioso, etc.. 

Accanto a queste concezioni personali di Dio troviamo però concezioni impersonali, talvolta estremamente astratte, secondo le quali Dio non ha né nome, né forma, né attributi, né qualità, né sentimenti, né emozioni, e perciò non è rappresentabile in alcun modo.

È questa ad esempio la visione espressa dalle Upanisad (850-500 le più antiche, 600-300 medie), testi religioso-filosofici che piuttosto che parlare di Dio preferiscono parlare in modo neutro dell’assoluto, del Brahman, lo spirito universale divino, al quale corrisponde l’Atman, lo spirito individuale umano.

Secondo questi testi il compito dell’essere umano che voglia raggiungere la salvezza è quello di realizzare in se stesso l’identità tra Atman e Brahman, annullando così quella illusione in base alla quale il mondo viene percepito come realtà e molteplicità.

Coloro che sostengono tale concezione (i Vedanta) non necessariamente disprezzeranno quelli che adorano la divinità prostrandosi davanti ad un’immagine di legno o pietra. Probabilmente riterranno che quelle persone sono ancora ad uno stadio di evoluzione spirituale primitivo e che magari avranno bisogno di una lunga serie di morti e rinascite prima di giungere ad una comprensione religiosa più matura. Nel frattempo gli uni continueranno a vivere tranquillamente accanto agli altri.

Alcuni degli elementi messi in luce fino ad ora ritornano anche a proposito della questione della  alterità extrareligiosa che, nel caso dell’Induismo, è stata spesso legata alla questione della alterità etnica.

Se è difficile sentir parlare di eresia in seno all’Induismo è altrettanto difficile che gli hindu chiamino “infedele” colui che proviene da un altro universo religioso e culturale. Il termine infedele è entrato certamente a far parte del vocabolario di quelle religioni che rivendicano la pretesa di assolutezza (Cristianesimo e Islam), ma è rimasto piuttosto estraneo al vocabolario hindu.

La tolleranza induista non è limitata alle religioni nate sul territorio indiano, ma si estende anche a quelle che vi sono arrivate nel corso della storia.

Certo, la pretesa di assolutezza di Cristianesimo e Islam e i metodi missionari, troppo spesso basati su una propaganda aggressiva, tendente a demolire l’Induismo mediante la denigrazione dei suoi testi sacri, delle sue credenze e dei suoi culti, sono sempre stati respinti con decisione e hanno suscitato anche reazioni apologetiche e polemiche. Ciononostante, la tendenza induistica è stata spesso quella di cercare di accogliere gli elementi positivi presenti in queste fedi straniere e nei loro libri sacri.

Resta senza dubbio una caratteristica propria dell’Induismo quella di riuscire ad assorbire e rielaborare elementi appartenenti a tradizioni religiose ad esso estranee, senza per questo perdere la propria identità. Si può forse dire che proprio grazie a questa caratteristica l’Induismo è riuscito a resistere a tutte le offensive missionarie volte a distruggerlo.

In certi casi, infatti, assorbire e rielaborare elementi di una tradizione religiosa estranea ha significato, di fatto, neutralizzarla.

Questo, naturalmente, non dovrebbe portarci a credere che tale processo di assorbimento e rielaborazione sia qualcosa di studiato a tavolino, qualcosa di deciso a priori, per puri scopi difensivi. Al contrario, possiamo dire che questa tendenza ad accogliere elementi provenienti da altre tradizioni religiose sia frutto di una concezione ottimistica del pluralismo religioso, in base alla quale in ogni tradizione religiosa, anche quella più lontana dalla propria, vi sarebbe qualcosa da imparare e forse da far proprio.

È per questo che l’Induismo è riuscito a accogliere in sè anche elementi provenienti dalle due religioni che più di tutte le altre lo hanno combattuto accusandolo di superstizione, politeismo e idolatria: l'Islam e il Cristianesimo.

Dall’incontro-scontro tra Induismo e Islam sono nati, ad esempio, riformatori religiosi del calibro di Kabir (1398-1518) e di Guru Nanak[1] (1469-1538), il fondatore del Sikhismo.

Kabir, poeta oltre che mistico, scrive:

                   «A che giova prosternarsi verso l’ovest,

                   o recitare distrattamente la preghiera quotidiana,

                   o il recarsi in pellegrinaggio alla Kaaba?

                   L’Allah che aleggia invisibile nella quiete della moschea

                  e l’idolo che troneggia tra le offerte nel clamore del tempio

                   non sono due diversi dèi.

                   Stolto fu colui che divise in due il mondo

                   assegnando ad Allah l’occidente e a Rama l’oriente!

                   Scopri dunque in Signore nell’intimo di te stesso,

                   Egli è ad un tempo Rama e Allah».

Di Guru Nanak propongo due testi:

«La religione non è vestire abiti rappezzati, impugnare il bastone del monaco pellegrino, cospargere cenere sul corpo.

La religione non è l’anello portato alle orecchie, il capo rasato, il suonare del flauto.

Fra le impurità del mondo rimani puro, imboccherai il sentiero della religione.

Le parole pure non sono la religione. Chi ha stima di tutti gli uomini è religioso.

Il pellegrinaggio alle tombe o ai sepolcri non è religione, neppure il rimanere seduti contemplando o l’andare pellegrinando in regioni straniere.

Fra le impurità del mondo rimani puro, imboccherai il sentiro della religione.

I dubbi svaniscono nell’incontro con il vero Maestro, gli smarrimenti mentali scompaiono.

L’ambrosia scende nel cuore, musica ammaliante risuona, l’uomo si immerge nella gioia.

Fra le impurità del mondo rimani puro, imboccherai il sentiro della religione.

Vivi incontaminato nel mondo, come fiore di loto che si posa sulla palude o uccello che volteggia sopra le nebbie.

O Nanak, la comunione dell’anima col verbo ti farà traversare immune l’infinito oceano delle apparenze».

Il secondo testo dice:

«La scoperta del suo Amore equivale ad innumerevoli pellegrinaggi.

Niente ti è utile e nulla ti serve se rimani lontano dal suo Amore.

Volgi lo sguardo a tutto il creato e vedrai che nessuno è giunto alla salvezza senza la sua Grazia.

Ascoltando gli insegnamenti del Maestro scoprirai in te incalcolabili ricchezze spirituali.

Il Maestro mi ha insegnato una cosa: uno solo è il Signore, il Donatore di tutto, ch’io mai lo dimentichi.

In comunione con il Verbo diverrai la dimora della Verità, della Gioia, della Conoscenza.

Otterrai le stesse grazie inerenti alle abluzioni compiute nei posti di pellegrinaggio.

Avrai la stima dei saggi e la tua mente si ricomporrà dimorando in Dio.

I fedeli adoratori del verbo vivranno un’estasi continua, il verbo cancellerà ogni colpa e sofferenza».

Di Kabir, che aveva tanto discepoli hindu quanto discepoli musulmani, si racconta che, quando morì, sia gli uni sia gli altri se ne contendessero il cadavere, gli hindu per cremarlo secondo il loro uso, i musulmani per sotterrarlo secondo la pratica islamica. La leggenda afferma che, quando andarono a sollevare il lenzuolo che copriva il corpo del maestro, trovarono che, al di sotto del lenzuolo, era rimasta solo la sagoma del corpo composta da migliaia di fiori. Così non vi fu più bisogno di litigare e una metà dei fiori venne bruciata, mentre l’altra metà venne sepolta.

Anche l’analisi della storia dell’incontro tra Induismo e Cristianesimo potrebbe essere un ottimo esempio per illustrare il tipo di rapporto che l’Induismo, nella sua varietà, tende ad instaurare con l’alterità extrareligiosa.

Sebbene tale incontro, secondo alcune tradizioni, sia avvenuto già nei primi secoli della nostra era, è certamente vero che il confronto più intenso tra Induismo e Cristianesimo si è avuto tra il XIX e la prima metà del XX secolo, cioè nel periodo in cui l’India dovette maggiormente misurarsi con il potere coloniale occidentale e con la propaganda missionaria (soprattutto protestante).

A differenza delle missioni cattoliche, quelle evangeliche si preoccuparono innanzitutto di tradurre e diffondere la Bibbia nelle lingue locali e perciò molti hindu, che, pur respingendo gli appelli dei missionari alla conversione, non disdegnarono di confrontarsi con le Scritture cristiane, vennero in contatto con il Gesù dei Vangeli di fronte al quale non restarono indifferenti.

Fu così che, mentre per alcuni Cristo rimase uno straniero o un invasore, altri riconobbero in lui un maestro, un profeta, un avatara (cioè una incarnazione di Dio), o un liberatore dall’oppressione sociale e religiosa.

Le interpretazioni di Cristo che vennero elaborate in quel contesto sono anche quelle tuttora presenti, con qualche eccezione, nell’Induismo contemporaneo.

Naturalmente si tratta di letture che si discostano, talvolta in modo notevole, dalla ortodossia cristiana tradizionale.

La disponibilià all’ascolto e all’accoglienza dell’altro propria dell’Induismo ha senza dubbio fatto sì che nel XIX e nel XX secolo alcuni spiriti illuminati ricavassero dall’incontro con il Cristo dei Vangeli il desiderio e la volontà di liberare l’Induismo da deformazioni e abusi accumulatisi nel corso dei secoli (superstizione, sati, sistema castale, etc.). Sarebbe però esagerato ritenere che tali abusi siano strutturali e che l’Induismo, prima di confrontarsi con il Cristianesimo, non conoscesse nulla di quell’amore del prossimo di cui parlano le Scritture ebraiche e cristiane.

Può essere significativo, a questo proposito, notare come la famosa regola evangelica detta “regola d’oro” («fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te») sia già presente nelle antiche Scritture hindu:

«Questa è la sommità di tutte le virtù: compòrtati con gli altri come vorresti che gli altri si comportassero con te; non fare al tuo prossimo ciò che tu non vuoi egli faccia a te (...) Tu seguirai la giusta norma, se considererai il tuo prossimo come te stesso» (Mahabharata, XII, 5571).

«Perfino al nemico, se egli ti chiede ospitalità, non negargliela; non offrono forse gli alberi la loro ombra e la loro protezione anche a coloro che li tagliano?» (Ibid., XII, 5528).

«Non ferire il tuo prossimo, neppure se ti provoca: non fare male ad alcuno né con il pensiero, né con l’azione; non pronunciare parole che possano recare dolore agli altri» (Le Leggi di Manu, II, 161).

 

«Non disprezzare nessuno; sopporta le calunnie con pazienza; non ti adirare con colui che si adira e benedici colui che ti maledice» (Ibid., VI, 47-48).

 

Come si vede, l’immagine del prossimo e il tipo di rapporto da instaurare con esso, così come emergono dalle Scritture hindu, presentano caratteri di straordinaria vicinanza agli insegnamenti evangelici e possono costituire una base comune dalla quale partire per un proficuo dialogo interreligioso.

Che poi questo dialogo possa condurre a convergenze dottrinali è poco probabile.

D’altra parte, non è una tipica preoccupazione induista quella di raggiungere accordi sul piano dottrinale, dal momento che esso considera positiva e necessaria l’esistenza di una pluralità di religioni.

L’immagine che forse meglio di altre può sintetizzare questo atteggiamento ottimistico dell’Induismo nei confronti del pluralismo religioso (e quindi anche della alterità extrareligiosa) è quella dell’albero, utilizzata dal mistico Ramakrishna.

Per Ramakrishna (1836-1886) le molte religioni sono rami dello stesso albero e vie allo stesso Dio.

Sul perché quello stesso Dio venga percepito in modi così diversi e addirittura contraddittori gli uni rispetto agli altri, gli hindu rispondono qualche volta raccontando la parabola di un gruppo di ciechi nati i quali, per capire come fosse un elefante, si misero a tastarlo; ma, siccome ognuno ne tastava solo una parte, le descrizioni dell’animale non potevano che essere differenti le une dalle altre. Chi ne toccava la proboscide affermava che l’elefante era come una specie di serpente, chi ne toccava le zampe affermava che l’elefante era come una colonna, chi ne toccava la testa affermava che l’elefante era come una giara.

 

Prendendo spunto da questa parabola, potremmo concludere dicendo che di fronte a Dio siamo un po’ tutti nella stessa situazione di quei ciechi che hanno ragione finché descrivono la parte che hanno percepito, ma hanno torto quando pretendono di affermare che ciò che essi hanno percepito corrisponde al tutto.

Da una prospettiva cristiana direi che lo stesso apostolo Paolo sembrerebbe essere consapevole che la comprensione globale del mistero di Dio non è alla nostra portata e non può che essere posta alla fine dei tempi, se nella I lettera ai Corinzi scrive:

 

                   «Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro;

                   ma allora vedremo faccia a faccia;

                   ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente,

                  come anche sono stato perfettamente conosciuto» (I Corinzi 13,12)

 

(Testo redatto dall’Autore)


 


[1]Santo e capo religioso, fondatore del Sikhismo. Stimolato dalle infelici lotte tra hindu e musulmani, sognò l’incontro tra le due fedi, poiché in entrambe vedeva solo due diversi tentativi di giungere allo stesso Dio. Non riuscì a concilliare le due religioni in lotta, ma attrasse a sé un grande numero di discepoli che si costituirono poi nella religioni a noi nota come Sikhismo.

 

 

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